Parkinson

La pubblicazione degli esiti del trattamento su un singolo paziente ha sollevato domande circa l’efficacia e i rischi dell’uso di staminali contro questa patologia, e anche questioni bioetiche.

Come ogni racconto che si rispetti, anche quello che ha condotto i ricercatori del McLean Hospital del Massachusetts e del General Hospital di Boston a tentare un trapianto di cellule staminali autologhe per il trattamento di un paziente affetto dal morbo di Parkinson comincia per caso, con l’invio di una e-mail e termina - anche se la fine di questa storia è solo l’inizio di un capitolo più ampio - con la corsa di un’ambulanza nel cuore della notte. I dettagli tecnici di questa storia sono contenuti nell’articolo pubblicato lo scorso 14 maggio sulle pagine della rivista più quotata della medicina, The New England Journal of Medicine, ma si tratta solo della punta dell’iceberg.

Sharon Begley, in una lunghissima pubblicazione sulla rivista STAT News ha riassunto gli innumerevoli sforzi, le impossibili coincidenze e le ostiche sfide che medici, biologi e pazienti hanno dovuto affrontare per raggiungere un obiettivo che fa discutere sul piano scientifico e bioetico ma che potrebbe tracciare la rotta verso una cura per il morbo di Parkinson. La malattia di Parkinson non ha bisogno di troppe presentazioni dal momento che si tratta di uno dei più conosciuti disturbi del movimento, la cui eziologia rimane in parte sconosciuta e i cui effetti si riverberano sui neuroni dopaminergici della sostanza nera. Nel suo progressivo incedere essa provoca un vistoso rallentamento dei movimenti che si riducono in maniera sistemica: dalla mimica facciale alla capacità di muovere le dita, fino alla possibilità di camminare e di parlare. I vistosi tremori sono forse il sintomo più evidente di una patologia degenerativa per la quale, allo stato attuale, non esiste una terapia specifica.

POSSONO LE CELLULE STAMINALI RAPPRESENTARE UN TRATTAMENTO?
A questa domanda ha tentato di rispondere il prof. Kwang-Soo Kim, direttore del Molecular Neurobiology Laboratory presso il McLean Hospital, esperto di neuroscienze e alla guida dello studio pubblicato sul The New England Journal of Medicine. Come racconta la Begley, Kwang-Soo ha potuto portare a compimento il suo lavoro sulle cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC) grazie al sovvenzionamento di George Lopez, un paziente affetto da morbo di Parkinson che ha staccato un assegno di due milioni di dollari per consentire allo studioso di allestire il proprio laboratorio e proseguire le ricerche sulle iPSC per favorirne una buona differenziazione in neuroni dopaminergici. L’obiettivo del lavoro di Kwang-Soo era di superare lo scoglio dei trapianti di neuroni dopaminergici che, in molti pazienti, generano rigetti suscitando complicazioni di varia natura.

Le iPSC provengono direttamente dai fibroblasti del paziente, sono subito disponibili e possono essere riprogrammate in modo tale da non essere respinte una volta impiantate. Ma questo non è ancora sufficiente a garantire un successo terapeutico perché serve adottare una procedura d’innesto che non rovini le cellule: caricarle all’interno di una siringa e iniettarle nel cervello del paziente non è sufficiente. Ecco perché è stato coinvolto il prof. Jeffrey Schweitzer - un neurochirurgo specializzato in Parkinson e direttore del programma Neurosurgical Neurodegenerative Cell Therapy presso il Massachusetts General Hospital - il quale ha pensato a una procedura di impianto minimamente invasiva che preservasse l’integrità delle cellule, in modo che, una volta trapiantate nel paziente potessero espandersi e ripristinare i neuroni danneggiati.

LA QUESTIONE ETICA
Una volta completati i test sulle cellule, Kwang-Soo Kim ha richiesto l’autorizzazione all’agenzia regolatoria statunitense (Food and Drug Administration - FDA) per mettere in atto la procedura di trapianto e ha ricevuto l’approvazione del Comitato di Etico dell’ospedale per impiantare le cellule nel cervello del paziente. George Lopez, 69 anni, è stato dunque sottoposto alla procedura. Lo stesso Lopez che in precedenza aveva versato il denaro necessario affinché la ricerca sulle staminali non si arenasse. Occorre leggere con estrema attenzione questa storia dai pesanti risvolti etici per evitare di saltare alla facile conclusione che chiunque abbia del denaro possa “comperare” le terapie necessarie a salvarsi la vita. Infatti, il protocollo di utilizzo delle cellule staminali contro il Parkinson si basava sull’assoluta collaborazione tra scienziati, medici e chirurghi che, grazie ai finanziamenti ricevuti, hanno potuto sviluppare la loro linea di ricerca. Tuttavia, si tratta solo dell’incipit di una nuova emozionante storia della medicina.

Anche se i primi test condotti sulle cellule trapiantate nel cervello di Lopez confermano che la tecnica di Schweitzer aiuta a preservarne l’integrità, e anche se tali cellule sembrano essersi ben differenziate, funzionando come neuroni dopaminergici, saranno necessari ulteriori studi di verifica per saggiare le potenzialità di questa opzione terapeutica. I risultati ottenuti su un unico paziente non sono sufficienti a cantar vittoria, servono sperimentazioni cliniche su molti più individui per comprendere se, nel labirinto delle possibilità, i medici abbiano imboccato il percorso che conduce al nucleo del problema. C’è ancora molto lavoro da fare ed è fondamentale che i pazienti affetti da Parkinson non si illudano di poter già ricevere una cura o - peggio - che basti sborsare cifre astronomiche per accedere alle “cure che funzionano”. Lopez, dopo l’operazione, ha riferito un miglioramento delle sue condizioni di salute tali da consentirgli di riprendere ad allacciarsi le scarpe, camminare e a parlare con voce più chiara e squillante ma non ha mai smesso di assumere i farmaci per la sua malattia. Non è stato guarito completamente e sarà fondamentale proseguire il monitoraggio per esser certi che si tratti almeno di una stabilizzazione e non di un effetto placebo.

Il protocollo del prof. Kwang-Soo Kim contribuisce ad estendere sensibilmente le potenzialità dei trapianti cellulari e, pur se azzerano il rischio di rigetto, i processi produttivi di questa tipologia di cellule appaiono più complessi rispetto alla possibilità di “disporre di alcune linee cellulari utili per molti pazienti, come stanno cercando di fare gli scienziati in Giappone”, afferma Brian Fiske, vicepresidente del programma di ricerca presso la Fondazione Michael J. Fox per la ricerca sul Parkinson, che comunque non è stata coinvolta nello studio “Ma fino a quando non proveremo tutte queste diverse opzioni, non sapremo quale sia la migliore”.

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