Dott. Michele Merli (Milano): “Le CAR-T in seconda linea sono più efficienti dal punto di vista immunologico perché i linfociti T hanno subito meno trattamenti e si espandono meglio”
Uno dei maggiori successi nella lotta ai linfomi è la possibilità di stratificare i pazienti in base all’iter terapeutico più appropriato. Ciò è stato reso possibile dalle scoperte sulla biologia di questi tumori che, specie negli ultimi anni, hanno impresso una poderosa spinta nella messa a punto di innovative strategie di trattamento, fra cui le terapie a base di cellule CAR-T, il cui ingresso sul mercato ha rivoluzionato l’approccio al linfoma diffuso a grandi cellule B (DLBCL). Ne abbiamo parlato con il dott. Michele Merli, della S.C. di Ematologia della Fondazione IRCCS Ca’ Grande Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, uno tra i centri in cui si effettuano più infusioni di CAR-T in Italia.
“Il primo criterio per massimizzare l’effetto delle terapie è considerare già fin dalla prima linea il paziente con DLBCL che potrebbe beneficiare in seconda linea dell’approccio con le CAR-T”, precisa Merli. “In questo caso è utile fare una rivalutazione precoce del paziente e, in assenza di una risposta adeguata, avviarlo il più velocemente possibile alla leucaferesi, processo attraverso cui si separano i linfociti T dalla rimanente parte corpuscolare di cui è composto il sangue e che rappresenta il punto di partenza per la produzione delle CAR-T”. Su questo si era mostrato concorde anche il dott. Riccardo Saccardi, ex Direttore della SODc di Terapie Cellulari e Medicina Trasfusionale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi di Firenze, che nel secondo volume del progetto Cell Therapy Open Source aveva posto in evidenza l’opportunità di elaborare e mettere a disposizione dei medici un algoritmo per individuare i pazienti a maggior rischio di fallire la prima linea ed esser avviati tempestivamente alla seconda, oggi formata dalle CAR-T.
Infatti, attualmente la suddivisione dei linfomi diffusi a grandi cellule B nei diversi gruppi prognostici avviene sulla base dell’Indice Prognostico Internazionale (IPI) che tiene conto di vari fattori, tra cui l’età alla diagnosi, il livello dell’enzima lattico deidrogenasi (LDH) nel sangue, il coinvolgimento delle sedi extranodali e lo status del paziente (con la presenza o meno di gravi comorbidità). Circa il 10-15% dei pazienti trattati con la chemioterapia in prima linea sviluppa una recidiva (definita dal ripresentarsi della malattia entro 6 mesi dal trattamento iniziale) e un’ulteriore quota di persone (circa 20-25%) ha una recidiva entro i primi due anni: la gestione di questo gruppo richiede strategie individualizzate, come le CAR-T. “Dagli studi condotti in questi anni è emerso che in seconda linea le CAR-T sono più efficaci che in terza”, riprende Merli. “Infatti, hanno una maggior efficienza dal punto di vista immunologico dal momento che i linfociti T subiscono meno cicli di chemioterapia, sono più attivi e si espandono con più facilità. Inoltre, a questo stadio è minore il rischio di tossicità”. In effetti, tra i potenziali eventi avversi delle CAR-T si riconoscono la sindrome da rilascio delle citochine (CRS), e la neurotossicità oltre a un rischio infettivo associato alla riduzione del numero di globuli bianchi (leucopenia con neutropenia). Sono relativamente frequenti anche altre citopenie, come le anemie o piastrinopenie (citopenie mono- o multi-lineari).
“All’Ematologia dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano predisponiamo il ricovero del paziente per un periodo di circa un paio di settimane per la somministrazione delle CAR-T”, puntualizza Merli. “Poi, una volta dimesso, il paziente ritorna periodicamente a fare i controlli per monitorare la risposta al trattamento. Presso il nostro centro effettuiamo 20-30 infusioni di CAR-T ogni anno e le risposte dei pazienti sono risultate in linea con i dati della letteratura scientifica, degli studi registrativi e di quelli in Real World. In particolare, la percentuale di esiti positivi aumenta a seconda che le CAR-T vengano usate in seconda o terza linea: in terza si ottengono risposte soddisfacenti nel 40% dei pazienti ma questa percentuale sale a 50-55% in caso di utilizzo già in seconda linea”. È, pertanto, prioritario programmare con accuratezza il percorso curativo e, laddove le condizioni lo consentano, anticipare il più possibile il ricorso alle terapie avanzate. Ma se ciò non fosse possibile? Rimane, infatti, una fetta di pazienti che non ottiene le risposte auspicate, con la malattia che torna a recidivare già a pochi mesi dall’infusione delle CAR-T. “I successi della ricerca scientifica e delle terapie avanzate ci stanno permettendo di ridurre sempre di più questa percentuale di pazienti con malattia ad alto rischio per cui restano tuttavia disponibili i trattamenti con anticorpi bispecifici o con altri farmaci in grado di potenziare l’effetto delle CAR-T o, ancora, i nuovi approcci di immunoterapia in fase di validazione”.
Tra le nuove versioni delle CAR-T su cui i ricercatori si stanno spremendo le meningi ci sono le Dual CART, costruite per esporre due antigeni di sintesi CAR ad aumentare il ventaglio di bersagli terapeutici; oppure le Armored CAR-T, collegate a sostanze immunomodulanti (lenalidomide o golcadomide) che ne aumentano l’efficacia; un ulteriore filone di studio è dedicato alle CAR-T anti-CD22 di cui si è recentemente parlato in un articolo pubblicato su The Lancet Oncology. “In questo caso i pazienti selezionati avevano già ricevuto una terapia a base di cellule CAR-T dirette contro l’antigene CD19 ma, purtroppo, avevano sviluppato una recidiva di malattia”, aggiunge Merli commentando il trial di Fase I, condotto su un numero ristretto di persone, ma che testimonia il grado di differenziazione delle CAR-T, sempre più versatili e che, in un prossimo futuro - come ribadito su un commento pubblicato sempre su The Lancet - potrebbero mutare l’iter terapeutico dei pazienti ad alto rischio resistenti alle terapie. “Le nuove versioni delle CAR-T, come pure le varianti allogeniche di cui si parla ormai da anni per la considerevole riduzione dei costi di produzione potrebbero facilitare l’accesso a un numero ben più ampio di pazienti”, afferma Merli. “I primi dati presentati hanno evidenziato risposte complete intorno al 40%”.
In attesa che una o più di queste strategie raggiunga l’operatività clinica, per i pazienti resistenti ai trattamenti sono già disponibili gli anticorpi bispecifici che legano un linfocita T e, allo stesso tempo, agganciano le cellule tumorali permettendo così al linfocita T di svolgere la sua azione e distruggere la cellula nemica: si tratta di un sistema altamente mirato. “Ce ne sono di due tipi”, conclude Merli. “Glofitamab, somministrato per via endovenosa, ed epcoritamab che, invece, ha una somministrazione sottocutanea. Richiedono un breve ricovero solo al primo ciclo e producono risposte complete e stabili per periodi di tempo prolungati”. Insieme agli anticorpi farmaco-coniugati - grazie a cui la chemioterapia sta acquisendo precisione e specificità d’azione - stanno cambiando il volto delle terapie oncologiche e non si può escludere il loro prossimo utilizzo anche ai tumori solidi.